“Hanno parlato un po’ di tutto”, come è normale che sia tra premier e presidente.
Le fonti interpellate derubricano a consuetudine il colloquio avvenuto al Quirinale tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni ma l’almanacco dei problemi sul tavolo in queste ore descrive un’atmosfera tossica tra governo e magistrati, gran fatica sulla definizione dei decreti che il capo dello Stato deve esaminare ed eventualmente firmare e un blocco parlamentare che si protrae da mesi sulla nomina di un nuovo giudice della Corte costituzionale.
C’era bisogno eccome di una chiacchierata a quattr’occhi tra presidente e premier per raffreddare un po’ l’atmosfera, fare il check-up allo stato dei rapporti personali e capire se sia possibile ripristinare un clima di dialogo tra istituzioni, e chiudere con il continuo braccio di ferro tra poteri dello Stato.
In serata, anche se attesa, è arrivata la firma del presidente al contestatissimo decreto chiamato “Paesi sicuri” che per giorni ha tenuto banco tra toni violenti e accuse reciproche tra governo e magistrati. Un decreto emanato ma che nessuno può con certezza prevedere se risolverà il problema dei migranti trasferiti in Albania o se addirittura non riaccendere lo scontro con i giudici. Si è “parlato un po’ di tutto” e quindi soprattutto di quella che per Mattarella è la base della politica: mediazione e non visione di parte.
Solo pochi giorni fa, nel pieno delle polemiche sui migranti spediti in Albania, lanciò il proprio allarme: “tra le istituzioni e all’interno delle istituzioni la collaborazione, la condivisione delle scelte sono essenziali. Vi sono, in particolare dei momenti nella vita di ogni istituzione in cui non è possibile limitarsi ad affermare la propria visione delle cose – approfondendo solchi e contrapposizioni – ma occorre saper esercitare capacità di mediazione e di sintesi”. Di certo il presidente non avrà ritirato fuori queste parole nel colloquio, peraltro breve, con la premier ma il senso profondo rimane quello.
Anche perchè le tensioni si moltiplicano di giorno in giorno – di oggi le dimissioni del capo di gabinetto del ministro della Cultura Giuli – e si avvicina una nuova chiamata parlamentare per eleggere il giudice della Consulta. Elezione per la quale è stata proprio la Costituzione a scrivere nella pietra la necessità di un dialogo tra gli schieramenti visto che ha prescritto l’elezione, al terzo turno, attraverso i tre quinti delle Camere. Voto, l’ennesimo, che è stato calendarizzato per il 30 ottobre. Infine il nuovo caso che investe il ministero della Cultura con un capo di gabinetto difeso dal suo ministro, Alessandro Giuli, e con buona parte del partito di maggioranza che da tempo lo infilza con dichiarazioni di fuoco. Facile pensare che il presidente abbia garbatamente chiesto alla premier cosa stia succedendo all’interno di un ministero importante e di grande proiezione estera come la Cultura. Un caso che rappresenta il termometro, si ragiona in ambienti parlamentari, della confusione che sta attraversando l’attività politica in questa fase.
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